www.alimenaonline.it Lunedì 10 Ottobre 2005
 
UN VIAGGIO NELLA MEMORIA

Nella Sicilia interna, un vasto altopiano di colline e dorsali in cui gli inse­diamenti sono accentrati in poche e sparse cittadine e sono posti in posizio­ne dominante in quanto i fondi vallivi fin dall'antichità hanno sofferto dell'imperversare della malaria, l'isolamento è stato accresciuto, oltre che da un ambiente fisico poco propizio, dalle sparse vie di comunicazione, lontane dalle principali direttrici viarie, tutte centrate sulla costa, e dal persistere di istituzioni feudali e del latifondo cerealicolo-pastorale. La povertà e l'arcaicità di queste terre hanno prodotto un'intensa emigrazione che nel ventennio 1955- 75 ha sottratto alla Sicilia interna oltre 600.000 persone, svuotando le vecchie dimore contadine e i borghi arroccati sui pendii roc­ciosi e accelerando in alcune aree i processi di desertificazione.

Alle pendici delle Madonie

Caterina, di 75 anni, ha lasciato il suo paese, Alimena, arroccato nel cuore delle Madonie, alla metà degli anni sessanta. Allora la principale attività era legata alla terra, posseduta da un esiguo numero di proprietari. Quando è partita le cose non erano diverse dai tempi della sua infanzia, però la popolazione era diminuita a causa dell'emigrazione in Germania e nel nord. "Molti sono i ricordi collegati alle tradizioni del mio luogo d'origine, dice Caterina, pero quello che ancora oggi mi suscita maggiore nostalgia, perchè connesso ad una realtà irrevocabilmente scomparsa, riguarda la novena che precedeva il Natale. Tutti noi ragazzi ci recavamo in chiesa per assistere alla prima messa delle sei, che era accompagnata dai canti e dal suono dell'organo. Non era la devozione ad indurci a fare quella levataccia e ad affrontare il rigore del crudo inverno, ma la prospettiva di tante risate in sordina e delle conseguenti minacce del sacrestano `Tanuzzo`. In chiesa ci univamo nel coro antistante l'altare maggiore, tutti accalcati per combattere il freddo, (perchè a quel tempo le chiese non erano riscaldate e nel cuore della Sicilia d'inverno fa molto freddo) e tra spinte e risate si faceva schiamazzo, cercando di evitare la lunga canna di bambù del sacrestano che tentava di calmare i nostri bollori giovanili. Che divertimento!

II Natale si festeggiava secondo la tradizione ed il dolce caratteristico era il "buccellato" fatto di pasta sfoglia ripiena di cioccolato fondente e pasta di mandorle oppure di pasta non zuccherata, chiamata “pasta di casa”; ripiena di fichi secchi, uva passa e mandorle abbrustolite. Al contrario che negli altri ­paesi, da noi la Befana si festeggiava il primo giorno dell'anno e per tutta la settimana antecedente, ogni sera, appena faceva buio, i ragazzotti (“i figgi da Strina”) con pentole, coperchi, barattoli di latta e campanacci, correvano per le strade facendo tanto allegro baccano per inseguire la "Vecchia" e invogliarla a portarci i doni. Invece il sei gennaio si ricordava un ipotetico Vec­chio che era spilorcio e non portava nessun regalo."

Quella della Vecchia è una tradizione presente in molti paesi della Sicilia e simboleggia il principio femminile, procreatore e apportatore di doni e ab­bondanza. La sua raffigurazione in una donna anziana indica però anche l'esaurimento energetico collegato al periodo invernale. Come "Strina" (strenna) e "Stria" (strega) questa maschera perpetua dunque una credenza in cui si celebra la vita e si sconfigge la morte.

"Altre maschere giravano a Carnevale, ricorda ancora Caterina, quando si rovistava nei bauli per cercare i vestiti di nozze dei nonni e così ci trasformavamo in belle damine e azzimati giovanotti pronti per an­dare a ballare nei veglioni. Ma il martedì grasso alle dieci di sera "Tanuzzo" suonava le campane a martello per annunciare che era morto il “ Nonno” (cioè il Carnevale). In quei giorni i dolci caratteri­stici erano i "ravioli": pasta sfoglia ripiena di ricotta, zucchero e cioc­colata fondente, conditi con can­nella, fritti nell'olio e bagnati nel miele e nello zucchero.

La festività religiosa più sentita era la Pasqua , le cui celebrazioni iniziavano la domenica delle Palme, con il susseguirsi di molte processioni. Alla messa cantata venivano distribuiti i ramoscelli di ulivo benedetti e foglie di palma intrecciate e lavorate. La domenica pomeriggio iniziava a sfilare la Confraternita del Rosario, il lunedì toccava a quella del Crocifisso, il martedì a quella di S. Giuseppe e il mercoledì a quella del Carmelo, la più prestigiosa. Queste confraternite, i cui componenti erano legati dalle stesse condizioni sociali, si davano uno statuto, eleggevano un presidente e si riunivano in una propria sede. Lo scopo principale di queste associazioni, a cui non tutti potevano partecipare perchè si richiedeva una quota annua di adesione, era di permettere al soci di avere una propria tomba, costruita con il denaro delle quote versate da tutti gli aderenti.

Il Giovedì Santo, alla sera, nella chiesa madre dedicata a Santa Maria Maddalena, patrona di Alimena, quasi al buio, per creare la giusta atmosfera, veniva raccontata dal pulpito la Passione di Cristo e verso la mezzanotte, guidata, dal clero, si svolgeva la processione con Gesù morto. Nella chiesa del Calvario, parata a lutto, veniva allestito il sepolcro che poi era visitato dai fedeli. Il venerdì di prima mattina, si svolgeva una grande processione di tutte le confraternite che si recavano al Sepolcro al rullo dei grandi tamburi.

Dalle ore 15 del Venerdi Santo alla mattina di Pasqua "venivano legate le campane", che non suonavano perchè era morto Gesù e passava per le strade un ragazzo che, scuotendo la "troccola" un aggeggio di legno, annunciava l' inizio delle funzioni religiose. Contemporaneamente sul sagrato della chiesa del Calvario veniva rappresentata la crocifissione: la statua di Gesù a grandezza d'uomo, veniva issata sulla croce, accanto venivano posti i simulacri della Madonna addolorata e della Maddalena (che recava in mano baccelli di fave verdi per propiziare un buon raccolto). Alle ore 18 la statua di Gesù morto veniva posta in una grande urna di vetro e portata a spalla in processione per le vie, assieme alle due statue della Madonna e della Maddalena ammantate di nero. Dietro c'erano il clero, il sindaco, le autorità cittadine, la banda che suonava la marcia funebre e il popolo.

Il Sabato Santo i giovani, detti “picciotti schietti” cioè celibi, giravano chiedendo un obolo alle famiglie benestanti per organizzare una festa profana che aveva il suo culmine in una grande mangiata. Anche il giorno di Pasqua era soprattutto caratterizzato dall'aspetto culinario molto invitante: il piatto forte consisteva nella pasta preparata in casa e avvolta intorno alla "buda" un bastoncino molto sottile, per ottenere dei maccheroni che venivano fatti asciugare per due giorni. Il condimento consisteva in uova sode, melanzane fritte, ragù con carne di maiale e pecorino grattugiato. Quando la Pasqua ricorreva nella terza decade di aprile si mangiava la “frittella”, composta di fave verdi, pisellini novelli, finocchietti, lattuga tenera, salsicce e pecorino.

Molto amata era la festa del Corpus Domini, durante la quale l'Ostia Santa veniva portata in processione per le strade del paese adornate con altarini riparati da un baldacchino, davanti ai quali il sacerdote impartiva la benedizione. Le processioni si susseguivano per nove giorni con percorsi e orari diversi: il primo giorno sfilava alle dodici, l'ultimo giorno, festa del Sacro Cuore, alle nove di sera. Il sacerdote, reggendo un grande Ostensorio, camminava sotto il baldacchino, sostenuto da otto giovani (ruolo molto ambito e per il quale venivano scelti giovani diplomati dell'Azione cattolica), ed era seguito dalla banda.

Nella prima decade di maggio si celebravano le “Rogazioni”, un rito penitenziale con processioni e preghiere, per ottenere da Dio la fecondità dei campi. Caterina ricorda che a guidare la processione c'era spesso padre Michele, un prete mattacchione che recitava le litanie leggendo un libro vecchio e consunto. Per non inimicarsi qualche santo il cui nome risultava illeggibile, intonava con la sua voce da trombone: “ Pi u santo di stu pirtuso (buco), libera nos Domine."

Un'usanza più folkloristica che religiosa, anche se riguardava un santo venerato in paese, S. Alfonso de'Liguori, era legata alla pioggia benefica necessaria all'agricoltura, di cui il santo era protettore. Quando le precipitazioni primaverili tardavano e il grano non cresceva, si portava la statua del Santo dalla sua chiesa, sul cucuzzolo del colle, alla Matrice e si teneva li, in castigo, fino all'arrivo della pioggia. Solo allora, accompagnato dalla banda e dalle luminarie S. Alfonso poteva tornare alla sua chiesa.

"Allora tutto era semplice e la fede in Dio immensa, rammenta Caterina. Oltre a S. Alfonso si portavano in processione le statue della Madonna Addolorata e di Santa Maria Maddalena, protettrice del paese. Il popolo invocava l'Altissimo perchè mandasse la sospirata pioggia con queste parole: "Signuruzzu chiuviti, chiuviri! I lavuredda ‘ngranare faciti. Mannatini una bona, senz ' a lampi e senza trona." (Signore, fate piovere, fate crescere il grano, affinché spunti la spiga. Mandate una pioggia benefica, ma senza temporali.)

Il "lavuru" era la piantina di grano, alta una spanna, frutto del lavoro indefesso del contadino che si levava prestissimo e si sottoponeva a tanta fatica perchè non mancasse il pane alla famiglia. Rivedo i miei mezzadri, i "mitatieri", vestiti di poveri stracci, che calzavano le scarpe "quazate", simili alle ciocie, con un pezzo di gomma fornita dal gommista per suola.

Le festività erano un'occasione per indossare i vestiti buoni. Si vedevano i braccianti girare per la piazza, impacciati dagli abiti inconsueti, e riunirsi a capannelli per parlare dei lavori eseguiti e di quelli che li attendevano. Questi contadini la notte, quando trasportavano il grano trebbiato dalla campagna al magazzino di casa, usavano suonare lo scacciapensieri, "u ganghnlaruni" producendo una nenia malinconica che ben si accordava con la loro vita miserrima. Infatti abitavano in casupole con una stanza sopra la stalla, usavano il camino per cucinare e riscaldarsi, non avevano servizi igie­nici, e per le loro necessità si servivano della stalla degli animali.

Comunque anche nelle famiglie le cui condizioni erano migliori, il gabinetto, che si sforzavano di tenere pulito malgrado la mancanza di acqua, era alla turca. "Ogni giorno, ricorda Caterina, un'acquaiola che si chiamava Narda, ce la portava a pagamento dal cannolo (la fontana pubblica)". Riusciva a reggere quattro brocche di terracotta, "quartare" della capienza di venti litri ciascuna, fino al secondo piano. Quando è stata costruita la rete idrica, tutte le famiglie hanno voluto l'allacciamento e alcune, compresa la mia, hanno installato nelle cantine l'autoclave. In Sicilia il problema della mancanza di acqua è annoso e anche oggi ce n'e penuria.

Altro grave problema che produceva un isolamento forzato era quello dei trasporti, praticamente inesistenti. Ad Alimena i collegamenti erano assicurati dai carrettieri di Palermo, che facevano la spola tra il capoluogo e i paesi di montagna sui celebri carretti multicolori, decorati con scene di vita cavalleresca, un tipico prodotto dell'artigianato siciliano. Il viaggio durava una ventina di giorni e se pioveva o picchiava il sole usavano grandi parapioggia colorati come quelli del mercato. Sul carro, che era trainato dal mulo, portavano di tutto: dalle patate ai chiodi.

Un altro manufatto artigianale molto utilizzato erano le giare . Ad Alimena si usavano le ceramiche smaltate prodotte a Caltagirone: erano giare panciute per l'olio, con un coperchio di legno o terracotta. Invece i barili di legno servivano per contenere le olive verdi in salamoia, sopra le quali venivano sistemati rami di olivo.

Ai tempi dell'adolescenza di Caterina le ragazze che non studiavano, ed erano la maggior parte, trascorrevano il loro tempo libero ricamando il corredo da sposa, che veniva sistemato in lunghe cassepanche decorate. Ostacoli erano creati dal genitori al momento del corteggiamento, che doveva avvenire clandestinamente, poi quando ci si fidanzava ufficialmente con lo scambio dell'anello, era consentita solo la passeggiata per il corso, accompagnati dai genitori di entrambi: restare soli era praticamente impossibile.

Fino alla fine degli anni '50 il matrimonio veniva festeggiato con un rinfresco, "u trattamentu" in casa della sposa, poi prese piede l'usanza del pranzo al ristorante con la partecipazione oceanica di parenti. Otto giorni prima delle nozze c'era l'esposizione della dote. Si pagava anche una donna che si recava presso parenti ed amici con un cesto di dolci per annunciare le nozze. Questo dono era un invito a contraccambiare con un regalo.

Se le unioni erano contrastate, i fidanzati scappavano, “fuivano". Quando però venivano ripescati dai genitori dovevano rimanere separati fino alle nozze, che si celebravano durante la prima messa e senza abito bianco. Quando si verificava un lieto evento, il bambino veniva avvolto in fasce bianche di tessuto pesante, fino all'età di sei mesi.

I contadini facevano dormire i neonati nella "naca" (dal greco vello di montone), una culla appesa al soffitto. Da questo termine derivano un pro­verbio (“Di cui sunnu li figghi, si lannaca" "Ognuno deve cullare i propri figli", cioè "Ognuno deve badare ai suoi guai") e il verbo "annacare" riferito all'incedere dondolando di persona ricca. "Tra i giochi dei bambini, racconta Caterina, ricordo in particolare la trottola di legno fatta dal falegname di famiglia e la grande bambola di pezza confezionata da mia madre. Quando si sporcava si cambiavano la faccia disegnata e i capelli di stoppa."

Quando si verificava un decesso le donne si vestivano di nero e gli uomini non si sbarbavano per una settimana, in una sorta di sospensione simbolica della vita; i parenti prossimi vegliavano il defunto per 24 ore prima del funerale, mentre i vicini provvedevano al sostentamento, "u cuonsolu" dei familiari.

Veniva posto un nastro nero sul lunotto della porta accompagnato da una scritta: "Le donne che portavano il lutto, continua Caterina, la cui durata dipendeva dal grado di parentela, erano costrette ad uscire con il capo coperto da un velo nero: una poveretta con parenti attempati, rischiava di restate vestita di nero per anni. Grazie a Dio il tempo dell'abito nero si è ridotto notevolmente e le regole sono meno rigide. Si pensi che allora i vedovi si dovevano sposare la mattina presto, senza alcun festeggiamento, quasi stessero facendo qualcosa di sconveniente".

I legami familiari erano stretti ma anche gerarchici. Nell'Ottocento i coniugi anziché il tu confidenziale usavano il voi, consuetudine che io ho sentito ancora praticare da alcuni nel secondo dopoguerra. Sino al primo ventennio del `900 ai genitori ci si rivolgeva con "Vossia" e specialmente i bambini non avevano diritto di parola (come dice il proverbio:' li picciriddi hannu a parrari, quannu piscia a gaddina'); mentre le persone anziane di censo si interpellavano con "Voscenza", Vostra Eccellenza.

I dialetti siciliani, in genere integrati da espressiva mimica, serbano tracce del linguaggio greco, fenicio, arabo, normanno. Nonostante in passato essi siano stati considerati forme linguistiche da abbandonare, per secoli sono stati lo strumento espressivo della quasi totalità della popolazione e spesso hanno anche originato produzioni di qualità.
Ecco un esempio di delicata e raf­finata poesia, opera del poeta Giovanni Meli:

Dimmi, dimmi, apuzza nica (piccola),

unni vai cussì matinu? (così presto)

Non cc'e cima chi arrussica

Di li munti a noi vicinu.

Trema ancora, ancora luci,

la rugiada `ntra li prati,

duna accura non ti arruci (stai attenta a non bruciarti)

l'ali d'oru dilicati!

Li sciuriddi durmigghiosi (fiori assonnati)

`ntra li virdi soi buttuni

stannu ancora stritti e chiusi

cu li testi a pinnuluni (penzoloni).

Ma l'apuzza s'affatica!

Ma tu voli e fai caminu!

Dimmi dimmi apuzza nica,

unni vai cussì matinu?

"lo ancora penso e parlo in dialetto con mio marito, conclude Caterina, ma non provo nostalgia per questi suoni perchè la televisione li ha spesso resi volgari. Provo invece nostalgia per la mia casa natale perchè era la dimora antica della mia famiglia. Quando me ne sono andata ho portato solo alcuni pezzi d'arredamento, quasi contenta di liberarmi di quello che trent' anni fa ritenevo "vecchiume" e che ora mi capita di rimpiangere;

Conservo anche una coperta di lana filata a mano (con ordito di cotone) che mia suocera mi ha regalato. Allora infatti non solo molta biancheria era tes­suta a mano, come gli asciugamani confezionati con avanzi di cotone, ma anche le bisacce per l'asino e con il salice si intrecciavano i cesti (se si volevano bianchi il salice andava scortecciato e tenuto a lungo a bagno) nei quali si sistemava dalla biancheria per il neonato alla frutta e ai dolci. Tutte pratiche che ormai sono quasi scomparse;

Durante le visite recenti al paese incontravo sempre più facce estranee e meno amici, che un po' alla volta sono tornati al Creatore e così mi è passata la voglia di rivedere Alimena : preferisco pensarla come era un tempo."

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