Alimena: Augusto Cavadi presenta il suo libro (Il Dio dei mafiosi)

Alimena: Augusto Cavadi presenta il suo libro (Il Dio dei mafiosi)

Come è possibile che una società a stragrande maggioranza cattolica partorisca Cosa nostra e stidde, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita? Un interrogativo del genere ne coinvolge, a valanga, molti altri. Impegnativi e impertinenti. E questo potrebbe spiegare perché lo si è posto assai raramente”: così si legge nella quarta di copertina dell’ultimo volume di Augusto Cavadi (Il Dio dei mafiosi, San Paolo 2010). “Evidentemente – aggiunge l’autore – qualcosa non funziona. O nella testa dei mafiosi o nella teologia cattolica. O in tutte e due”.

Del tema discuteranno SABATO 10 aprile, alle ore 18,00 presso i locali della Proloco di Alimena, insieme a Cavadi, Don Antonio Garau (prete molto impegnato sul fronte dell’educazione alla legalità) e il Senatore Giuseppe Lumia (componente della Commissione parlamentare antimafia).
Il dibattito (introdotto da Salvatore Scelfo, presidente della Pro-loco e Segretario provinciale della Filca – Cisl) sarà moderato dal giornalista Salvo Toscano.

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su “Alimena: Augusto Cavadi presenta il suo libro (Il Dio dei mafiosi)”

  1. Col termine mafia s’intende un’associazione criminale che vive di illecito
    e di terrore.
    Le sue radici sono principalmente popolari, e si sono sviluppate nella Sicilia di fine 800.
    In verità, la mafia degli inizi non era quella assassina e violenta che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, ma era una specie di regola di vita basata sul’onore e il rispetto di leggi personali, non riconosciute, ovviamente, dalla magistratura.
    È così che la mafia poté nascere soprattutto grazie all’abbandono in cui viveva il Sud e la Sicilia; data la lontananza da Roma, lontananza che si manifestò nell’assenza più assoluta dello stato. Direi quindi che il popolo viveva in una specie di anarchia. Anarchia che può essere vista come la prima vera causa dell’affermazione di quel concetto di giustizia mafiosa e di quelle leggi che addirittura non vennero contrastate neanche dalla chiesa.
    Infatti per le istituzioni religiose il mafioso non era ritenuto un delinquente ma era invece ritenuto come un padre di famiglia che proteggeva quante più persone poteva. È in ciò che si cela una vera e propria filosofia basata sull’onore e su un fortissimo sentimento di religiosità.
    La mafia ha infatti ha bisogno di legarsi, mimetizzarsi ed essere approvata da tutti i vettori sociali esistenti in un luogo per ottenere quel consenso e quella sottomissione capillare che ha avuto in Sicilia come altrove.
    Pertanto la manipolazione e la deviazione dei valori fortemente condivisi nella cultura siciliana, come quello della famiglia trasformato in familismo, o ancora l’onore deviato in omertà o la religione, strumentalizzata nei rituali d’iniziazione o come mezzo di accettazione sociale, si sono posti come elementi che distinguono il fenomeno mafioso da qualsiasi altra organizzazione criminale.
    In tal senso importante è capire come la chiesa si è posta nel rapporto tra società e mafia.
    A tal proposito importantissimo diventa il problema del pentitismo e dei pentiti. Pentiti che all’interno della mentalità mafiosa, vengono visti come i delatori, gli infami che per ragioni differenti hanno deciso di svelare o meglio rivelare le conoscenze su COSA NOSTRA.
    Da ciò si può quindi chiaramente dedurre che i pentiti vengono visti come personaggi scomodi per l’organizzazione criminale che si vede privata di uno dei suoi elementi basilari: “il segreto”.
    D’altro canto però, i pentiti si pongono in una posizione scomoda anche nei confronti dei loro partenti, sia quando questi scelgono di rinnegarli pubblicamente sia quando scelgono di seguirli nella loro scelta,
    Infatti questi ultimi sono costretti a cambiare radicalmente la loro esistenza e a vivere nella continua paura di poter essere uccisi per vendetta o per ritorsione.
    Inoltre i pentiti si pongono in una posizione del tutto scomoda nei confronti di una classa politica, quindi di una classe dirigente che spesso ha visto minare la sua credibilità.
    Infine, i pentiti divengono individui scomodi anche per la Chiesa.
    Infatti quest’ultima è chiamata a esprimere delle valutazioni sull’operato dei collaboratori di giustizia. Valutazioni che hanno portato gli ambienti ecclesiastici a pronunciarsi su temi come il rapporto tra “il pentimento” e “l’accusa”o su temi come il rapporto tra giustizia divina” e “giustizia terrena”.
    Infatti la Chiesa ha da sempre avallato la tesi che nessuno può condannare nessun altro in terra in quanto siamo tutti peccatori.
    Da ciò evidente è il fatto che il messaggio cristiano spinge al perdono e all’amore in una chiave di lettura che vede colui che sbaglia come un malato e quindi la mafia non è più vista come un problema sociale ma semplicemente come una malattia che andrebbe curata e non punita.
    Inoltre alcuni esponenti del mondo clericale hanno parlato di mafia come un globo chiuso in cui nessuno può entrare e niente può uscire.
    Comunque cristianamente parlando, certo è, che la Chiesa non dovrebbe abbracciare tali posizioni o comunque rimanere in disparte in problematiche di tale rilievo sociale.
    Infatti la chiesa non deve perseguire i reati, non deve storcere testimonianze, ma deve semplicemente annunciare Gesù Cristo e sentirsi libera di farlo anche esponendosi a persecuzioni ma soprattutto senza lasciarsi condizionare.
    Purtroppo in molti fra preti, vescovi non hanno saputo o meglio avuto il coraggio di rompere quel muro di fastidiosissimo e pauroso silenzio, che giorno dopo giorno ha lacerato la nostra terra: la Sicilia.
    Infatti molti religiosi seppure mossi dall’evangelico precetto di ritrovare la pecorella smarrita e riportarla sulla retta via, hanno finito ad avallare forme di religiosità strumentale, legittimando un’accezione del pentimento
    intimistica e completamente priva della dimensione della solidarietà e dell’impegno civile.
    È per questo motivo che i rappresentati della chiesa tutti non dovrebbero far finta di niente nei confronti del fenomeno mafioso come del resto nei confronti di tutte le altre forme di criminalità organizzata e non.
    Quindi ogni buon sacerdote deve dar voce a tutti coloro che voce non hanno, ma soprattutto deve offrire ai fedeli una coscienza critica che spinga ad uscire da quel mondo di ostinato silenzio.
    Infatti ogni cittadino ha l’obbligo morale e sociale di reagire, di trovare il coraggio di dire basta a questa trama criminale in cui spesso convergono la politica e il sistema economico, cioè dobbiamo svincolarci da quel sistema insidioso che narcotizza le nostre coscienze, incute paura e fa terra bruciata nei confronti di chi osa ribellarsi, contribuendo a fare così della nostra Sicilia una terra avvilita e calpestata nella sua dignità.
    È dunque le chiesa che dovrebbe porsi come personaggio principale nei confronti della lotta alla mafia.
    In tal senso importante diventa la figura dell’ex cardinale di Palermo Pappalardo, infatti egli ha più volte pronunciato omelie grazie le quali ha fortemente condannato atteggiamenti di tipo omertoso ed ha anche sottolineato l’importanza dell’educazione alla legalità, senza però mai, individuare responsabilità politiche o comunque senza parlare del rapporto tra mafia e politica.
    Indubbio è che espressioni come queste hanno la loro importanza, ma,come spesso anche nel caso di mobilitazioni laiche, restano ancorate a un’ottica emergenziale ed emozionale.
    È proprio per questo motivo che deve essere attuato un percorso di educazione dei giovani alla legalità all’interno di quell’odioso sistema in cui il rapporto tra società sana e mafia non è esclusivamente determinato da vincoli di tipo economico- politico, quanto invece è basato su un vero e proprio progetto culturale che sin dall’inizio ha soppiantato la libertà e la coscienza di ogni individuo, incutendo in lui un profondo sentimento di terrore.
    Però sebbene il generale influsso delle istituzioni educative, dei mass-media e nello specifico nel grande impegno degli eroi e dei martiri dell’antimafia, abbiano grandemente modificato la situazione culturale di ampie sacche di popolazione, ancora oggi la mentalità mafiosa è lontana dall’essere estirpata da tutti i segmenti della società, anche da quello ecclesiastico.
    Infatti tale processo verso nuovi modelli culturali, ha permesso lo scioglimento di quell’aura d’intoccabilità dei ministri ecclesiali mettendone sotto critica l’operato specie nei confronti di quella piaga sociale che è la mafia.
    Secondo me, questa attività di critica deve essere accolta con entusiasmo sia
    dal modo laico sia da quello credente, in quanto se dovesse evidenziare degli errori da parte ecclesiale, la correzione di questi non porterebbe solo alla destabilizzazione del potere mafioso ma anche a una liberazione della Chiesa e in particolar modo quella siciliana che potrebbe così liberarsi da quei falsi modelli cristiani o più semplicemente da quel controllo capillare che la mafia ha su tutto il tessuto sociale siciliano; ma ancora per far fede a quel discorso pronunciato ad Agrigento nel 1993 da papa Giovanni Paolo II. Discorso con il quale invita i mafiosi alla conversione avvalendosi di parole come peccato, giudizio di Dio, ma ancora più discorso col quale lascia a noi tutti figli di Sicilia un grande messaggio “non abbiate paura”.

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